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Quasi un secolo di tradizione. L’Abruzzo celebra i suoi arrosticini
AGI – In una foto c’è la prova storica della nascita di una specialità della cucina povera che è diventata il simbolo gastronomico dell’Abruzzo. Correva il 12 ottobre 1930 e uno scatto fotografico immortalava gli arrosticini, i gustosissimi spiedini di pecora inventati da un pastore e avviati a un grande successo. Quell’immagine in bianco e nero fermò nel tempo il rito di preparazione e di cottura davanti alla chiesa della Madonna delle Grazie a Civitaquana, in provincia di Pescara, e finì sul libro «Gli Abruzzi dei contadini 1923-1930». Civitaquana celebra questo fine settimana i 93 anni degli arrosticini (in italiano, in abruzzese sono rustèll) con la festa gastronomica “L’Arrosticciere in piazza” mentre a pochi chilometri di distanza il centro di Civitella Casanova da qualche anno sfoggia l’autoinvestitura a “Patria degli arrosticini”. In attesa che finalmente si riesca a tutelare la denominazione d’origine controllata, protetta e garantita, evitando così che seguitissimi chef in seguitissime trasmissioni tv affermino che l’arrosticino appartiene alla tradizione partenopea, oppure che con un eccesso di disinvoltura nella cucina creativa vengano preparati con burro e salvia in padella, oppure corretti con rosmarino e altri aromi: variazioni sul tema che fanno inorridire (e insorgere sui social) gli abruzzesi e che sviliscono natura e significato culturale, oltre che gastronomico, di questo piatto povero che non ha neppure bisogno del piatto per essere gustato, per profumi e alla prova del palato. In origine l’arrosticino richiedeva carne di castrato, ma oggi si utilizza quella di pecora, per quanto con determinate caratteristiche; si usavano rametti di olivo o sanguinello, oggi i più pratici bastoncini; i pezzi di carne venivano tagliati a mano, attualmente per lo più sono in cubetti, considerata l’altissima richiesta. Ma preparazione e modalità cottura sono sempre gli stessi: alternanza di magro e di grasso per assicurare morbidezza e sapore, cottura rigorosamente alla brace (anche se le rustiche furnacelle sono state sostituite da apparecchiature che consentono di preparare 200 arrosticini per volta in 6-8 minuti), senza eccezioni. Sembra facilissimo ma non è così: l’arrosticino ha il punto di non ritorno nella cottura, che gli specialisti sanno cogliere perfettamente per offrire un prodotto delizioso, saporito, digeribile, che può essere gustato a tavola o in piedi, accompagnato da pane e olio e innaffiato da Montepulciano d’Abruzzo o buona birra. È peraltro l’unica eccezione della gastronomia tradizionale che consente di allungare il vino con la gassosa (o gazosa), che guarda caso nacque da queste parti più di un secolo fa e che riveduta e corretta e con nome inglese ha contribuito alla fortuna di più di una multinazionale. Lo chiamano street food non ricordando l’origine campestre legata ai pastori abruzzesi transumanti. Una storia plurisecolare, cantata da Gabriele d’Annunzio nella celeberrima poesia “I Pastori”, ma dannazione della tv in bianco e nero quando “Intervallo” faceva vedere le bellezze d’Italia architettoniche e paesaggistiche di regioni e città d’Italia e poi, quando toccava all’Abruzzo, si limitava alla fotografia di un gregge di pecore. La rivincita prepotente dell’arrosticino sta nella sua progressiva conquista di spazi e considerazione, altro che banale spiedino di carne: diffidare delle imitazioni, di prodotti similari di pollo, tacchino, manzo o maiale. È inconfondibile, piace a tutti, bambini compresi, e anche agli stranieri che in patria non si avvicinano neanche per sbaglio alla carne di pecora e poi ne scoprono le virtù all’ombra della Majella e del Gran Sasso. Chiedere ad esempio all’allenatore Zdeněk Zeman, che ne va matto. O al corpo diplomatico della Polonia che per iniziativa dell’allora ambasciatore Tomasz Orłowski nel 2015 ospitò nel parco dell’ambasciata una serata dedicata agli arrosticini preparati dagli abitanti di Vicoli, il più piccolo paese d’Abruzzo che aveva dedicato il parco pubblico all’eroe polacco Witold Pilecki, primo in Italia. Perché semplice è bello, ma anche buono, anzi buonissimo.
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