Andrea Ferravante ricorda: “Nel 1924 iniziarono le profanazioni e le violenze verso entrambe le obbedienze massoniche e verso tutti i massoni”.
Nel nostro Paese ha sempre occupato un posto d’onore fra le credenze popolari, probabilmente anche in virtù delle massicce campagne poste in atto dai vari detrattori, che la Massoneria stia dietro a moltissimi tristi avvenimenti della nostra storia. La Marcia su Roma, di cui parliamo oggi, è fra questi. Cerco di dare un quadro d’insieme sulla situazione, provando a capire se davvero è tutta colpa dei “grembiulini” oppure no.
Un coinvolgimento forte?
È il 25 ottobre 1922, siamo alla stazione ferroviaria Roma Termini. Fra gli altri, un uomo aspetta sulla banchina l’arrivo di un treno proveniente da Napoli e diretto a Milano. Per il passeggero la giornata è stata intensa, sta rientrando infatti dall’adunata di Napoli, nella quale erano stati definiti i dettagli operativi della Marcia su Roma. Il viaggiatore è Benito Mussolini, profondamente affaccendato nel programmare la sua ascesa al potere. Chi l’attende invece risponde al nome di Raoul Vittorio Palermi che in quel momento ricopre la carica di Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia, obbedienza massonica nata fra il 1908 ed il 1910 in seguito alla scissione dal Grande Oriente d’Italia.
L’incontro, riferisce Cesare Rossi, stretto collaboratore di Mussolini, fu fugace, giusto pochi minuti, nei quali il Gran Maestro, pare, rassicurò il capo del Partito Nazionale Fascista che:
“Ufficiali del comando della Regia Guardia, alcuni comandanti di reparto della guarnigione di Roma, ed il generale Cittadini, primo aiutante di campo del re, li avrebbero aiutati nel loro moto essendo tutti appartenenti alla sua Obbedienza massonica”.
Da questa prima ricostruzione appare un importante coinvolgimento della Gran Loggia d’Italia negli eventi, ma diversi testi ci informano che anche la famiglia massonica del Grande Oriente d’Italia non era da meno.
Entrambe le Obbedienze, almeno all’inizio, avevano infatti visto favorevolmente il programma mussoliniano di riordino dello Stato. Michele Terzaghi, nel suo libro Fascismo e Massoneria scrive infatti:
“Mussolini non disdegnò la Massoneria, ed in particolare quella di Palazzo Giustiniani, che era la più forte numericamente e finanziariamente e la meglio organizzata, ed accettò le non poche e non piccole sovvenzioni per “Il Popolo d’Italia” che gli venivano offerte dal ragioniere Ciresla e dall’ambasciatore Barrère (all’epoca Ambasciatore di Francia in Italia, ndr)”.
Ritornando al Palermi può darsi che nelle sue rassicurazioni ci sia stato un po’ di bluff, o per lo meno una certa esagerazione al fine di aggraziarsi il futuro Duce ma il Gran Maestro, nei giorni 27/28/29 ottobre, fece la spola fra la sede del Partito Fascista, Montecitorio, il Viminale ed il Quirinale, dove fu ricevuto da Cittadini in varie ore senza preavviso.
Il regio esercito “immune” da tentazioni sediziose.
A questo punto occorre però esaminare, sine ira et studio, queste affermazioni. Fermo restando che non abbiamo la possibilità di verificare tramite gli elenchi degli affiliati alla massoneria di Piazza del Gesù queste affermazioni, pare tuttavia lecito dubitare che tali ufficiali posti difronte all’alternativa tra l’esecuzione degli ordini del re e le indicazioni del loro Gran Maestro avrebbero infangato il loro onore militare e rischiato la propria carriera. Tale dubbio è confermato dalle affermazioni del generale Pugliese, comandante della guarnigione di Roma, secondo cui
“salvo sporadiche eccezioni, le truppe sarebbero state immuni da ogni tentazione sediziosa e determinate nella volontà di eseguire ad ogni costo gli ordini superiori”.
Anche ammettendo che il pugno di ufficiali pronti a venir meno al proprio giuramento ed al vincolo di fedeltà alle istituzioni prendesse ordini da Palermi, appare decisamente improbabile che il loro tradimento sarebbe stato determinante per le sorti del fascismo se il re avesse scelto di firmare lo stato d’assedio e di procedere al disarmo delle squadre in camicia nera.
In ultima istanza, come registrato da Efrem Ferraris, capo di gabinetto del ministro degli Interni, nelle prime ore del 28 ottobre il generale Cittadini giunse al Viminale poco dopo tutti gli altri membri del governo per raccogliere notizie precise sulle occupazioni fasciste da riferire al Re.
Dai verbali si riscontra che alcuni ministri si mostrarono riluttanti a adottare una misura così grave come lo stato d’assedio. A vincere tali resistenze intervenne proprio il generale, informando il Consiglio che, qualora non fosse stato deliberato all’unanimità lo stato d’assedio, il Re si sarebbe visto costretto ad abbandonare l’Italia.
Se il primo aiutante di campo del re fosse stato realmente in sintonia con Palermi, o ne avesse seguito le direttive, avrebbe senza dubbio sfruttato le incertezze dei ministri per spaccare il Consiglio e cercare di orientarlo verso più miti decisioni. Invece, fu determinante per spronare il governo verso la resistenza al fascismo. Al di là dei dubbi circa la sua possibile affiliazione massonica, è il comportamento nelle ore cruciali della crisi dello stato liberale a smentire le affermazioni di Palermi. Pertanto, lasciamo da parte ogni ulteriore sforzo di quantificare l’influenza massonica tra gli ufficiali posti a difesa della capitale e analizziamo il tema centrale, cioè la repentina decisione di Vittorio Emanuele III di non firmare lo stato d’assedio.
Stato d’assedio: la firma che non arriva.
Mentre i prefetti e le autorità militari venivano allertate sull’imminente entrata in vigore dello stato d’assedio e nelle strade di Roma già venivano affissi i manifesti che informavano la popolazione della volontà del Re e del governo di non cedere alle intimidazioni di Mussolini, il Presidente del Consiglio Facta, si recò al Quirinale. Fu ammesso alla presenza del sovrano, che oppose un netto rifiuto alla firma del decreto di stato d’assedio. Quasi tutte le testimonianze, a cominciare da quella dello stesso Vittorio Emanuele III, escludono nettamente che Facta possa aver indotto il Re ad evitare di adottare l’estrema misura.
Un autorevole storico del fascismo come Renzo De Felice considera che nel determinare il rifiuto del Re pesarono i timori per le possibili trame del duca d’Aosta e ancor più i giudizi filofascisti espressi dai vertici militari, tra cui quello dell’ammiraglio Thaon di Revel, nonché una certa sfiducia nella compattezza e nell’energia del governo. L’idea che il ramo cadetto di casa Savoia potesse seriamente ambire al trono con il sostegno dei fascisti potrebbe aver sfiorato il Re, tuttavia è difficile credere che, in assenza di elementi concreti che provassero gli intenti sediziosi del duca, tale idea abbia potuto da sola determinare l’improvviso voltafaccia di Vittorio Emanuele III.
Di fronte al profilarsi del rischio di una guerra civile, decisiva avrebbe potuto essere invece l’opinione espressa al Re dai vertici delle forze armate. Nonostante manchino del tutto le prove sia di incontri, sia di contatti telefonici, è probabile, secondo alcuni storici come Repaci e il già citato De Felice, che nelle prime ore del 28 ottobre il re si sia consultato con i generali Diaz e Pecori Giraldi e con l’ammiraglio Thaon di Revel, i quali avrebbero confermato “la fedeltà dell’esercito, raccomandando però al sovrano di non metterla alla prova”.
Nessun dubbio può sussistere sull’atteggiamento filofascista dei due altissimi ufficiali, confermato non solo dalla loro diretta partecipazione, come ministri della Guerra e della Marina, al primo governo Mussolini. Addirittura, il figlio di Diaz, Marcello, prese parte alla marcia su Roma ed avrebbe poi ricoperto importanti incarichi durante il regime. Più riservato fu l’ammiraglio che, per ragioni di servizio, si trovava a Napoli nei giorni dell’adunata delle camicie nere. Alla stazione sarebbe stato avvicinato dal quadrumviro Cesare Maria De Vecchi e da Costanzo Ciano, che lo avrebbero messo al corrente di ogni dettaglio relativo alla marcia su Roma, pregandolo di informarne il re. L’ammiraglio avrebbe accettato il delicato incarico ed espresso piena fiducia in Mussolini, ottenendo in cambio la promessa di un incarico ministeriale nel futuro governo. In quale misura fece effettivamente pressione sul re per indurlo a negare la sua firma in calce allo stato d’assedio è, tuttavia, impossibile da stabilire sulla base dei documenti a disposizione.
Riguardo, infine, al terzo elemento giudicato da De Felice capace di spiegare il voltafaccia di Vittorio Emanuele III, cioè la sua sfiducia nelle capacità e nella tenuta politica del governo in carica, molti sono gli indizi.
Il Re subì senza dubbio l’influenza dell’idea giolittiana di depotenziare e controllare le spinte eversive del fascismo attirandolo nell’area di governo.
Tale disegno politico avrebbe potuto affacciarsi nella mente del sovrano quando nella sera del 27 ottobre il presidente del Consiglio Facta si presentò dimissionario. Le residue incertezze del Re avrebbero poi potuto cadere definitivamente non appena il generale Cittadini gli riferì dei contrasti presenti nel governo a proposito dello stato d’assedio. Vittorio Emanuele III avrebbe quindi optato per l’apertura a Mussolini, giudicandola meno rischiosa di una guerra civile da affrontare con un governo debole e diviso al suo interno ed un esercito giudicato dai suoi stessi vertici non del tutto affidabile.
Divengono pertanto, a mio avviso, maggiormente importanti le responsabilità del sovrano nella gestione della vicenda, rispetto alle responsabilità, vere o presunte delle istituzioni liberomuratorie. Dai documenti da me consultati posso dedurre che, se le obbedienze massoniche cercarono, in qualsiasi modo, di ingraziarsi il futuro Duce fu per ottenerne benefici politici e nella speranza che una maggior vicinanza al Partito potesse essere d’aiuto nell’intestina lotta fra il Grande Oriente e la Gran Loggia.
Per approfondire il ruolo della borghesia italiana: 28 ottobre: la lunga gestazione del fascismo secondo Lorenzo Somigli.
A conferma di ciò nei primi giorni del 1923 l’assemblea del Grande Oriente confermò di non essere contraria al fascismo e la Gran Loggia addirittura inserì nei suoi regolamenti la dichiarazione di fedeltà al fascismo.
Queste mosse a mio avviso furono fatte solo e soltanto per cercare di salvare il salvabile, tentando di evitare l’irrigidimento del partito nei confronti della massoneria, tentando di risparmiare ai massoni le angherie che, purtroppo, sarebbero state poi perpetrate dalle squadre del regime.
Non è infatti peregrino pensare che i due Gran Maestri non avessero saputo che nei primi giorni del 1923 Mussolini si era incontrato con il Cardinale Gasparri per cercare una conciliazione, ed è chiaro che non potevano convivere, fra gli alleati del fascismo, Chiesa e Massoneria.
Nel 1924 iniziarono infatti le profanazioni e le violenze verso entrambe le obbedienze massoniche e verso i massoni in generale. Le sedi romane del Grande Oriente e della Gran Loggia furono assaltate e, solo grazie all’intervento della forza pubblica, i manifestanti furono dispersi. Il solito copione andò in scena un po’ dovunque in Italia, Milano, Venezia, Bologna, Taranto. Questa par condicio nelle razzie mi fa supporre che nessuna delle due famiglie godesse di particolari favori presso il Duce e appare pertanto poco sensato supporre che, come qualcuno ipotizza, una famiglia massonica potesse aver aiutato gli assassini di Matteotti per godere di un miglior trattamento.
Nel 1925 fu approvata la legge che, in sostanza, bandiva dalla Penisola ogni associazione liberomuratoria ponendo fine a qualsiasi possibilità di conciliazione fra il fascismo e l’arte reale. Il 23 settembre del 1925 furono “sciolte tutte le logge e le camere superiori del rito scozzese antico ed accettato” della Gran Loggia d’Italia. Stessa sorte toccò al Grande Oriente d’Italia il 22 novembre 1925.
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